Riflessioni sui convegni Back to the future: 1968, the 1960s and our time e Il ’68: che cosa rimane dell’utopia
Durante la settimana dal 19 al 23 maggio 2008, si è tenuto a Roma, un intenso doppio seminario di riflessione ed analisi sul Sessantotto per i quaranta anni che ci separano da quella data, organizzato in collaborazione tra il Centro Studi Americani ed il Goethe Institut: uno, dal titolo: Back to the future: 1968, the 1960s and our time, che prevedeva interventi su “Letteratura, storia e cultura americana”; l’altro, presso il Goethe Institut di Roma, dal titolo: Il ’68: che cosa rimane dell’utopia, denominato “settimana tematica sul Sessantotto”.
I due convegni hanno presentato un approfondito quadro sugli “anni Sessantotto” – come vengono ora definiti – affrontandoli da diversi punti di osservazione, attraverso l’analisi di esperti di varie materie, quali: cinema, letteratura, musica, linguaggio, arte, teatro, storia e storia di genere. La prima differenza che si è potuta notare fra le due impostazioni, quella americana e quella europea, è stata segnata da una maggiore attenzione dei primi verso la storia che precede il ’68 (che parte dagli anni Cinquanta), mentre i colleghi europei hanno la tendenza a concentrarsi maggiormente sulla storia successiva. In questa chiave risaltavano infatti le interpretazioni che proponevano l’anno della rivolta studentesca come momento di inizio di un processo di radicalizzazione della lotta politica che ha finito con lo sfociare nel terrorismo; un punto d’inizio, dunque, funzionale ad una certa ricostruzione analitica degli anni settanta, e non snodo di una visione progressiva della storia.
Vi è un dato che emerge dalla partecipazione del pubblico a questi incontri, che rappresenta lo strano rapporto che si ha ai nostri giorni con la storia, con i suoi miti e con le diverse forme della trasmissione della memoria. Il “mito del Sessantotto” sembra rimanere vivo in due generazioni, quella che quegli anni ha vissuto, soprattutto sentendosi protagonista (perchè tutti in fondo erano protagonisti del cambiamento di quel/quegli anni), e quella, indefinita e di breve durata, dei giovani. I giovani del periodo successivo hanno quasi sempre ceduto al fascino della grande rivolta universale, almeno per un momento, con la passione della loro età. Però, in questi incontri erano proprio i giovani i grandi assenti.
Presenti invece, sia sul palco che tra il pubblico, i testimoni, da intendere come coloro che hanno fatto della propria storia materia di una costante elaborazione culturale, e gli studiosi di diverse discipline. L’analisi, come si può vedere dai titoli dati al convegno, puntava sul rapporto fra il Sessantotto e il presente, delineando la tendenza a mantenere vivo il rapporto di continuità, a seguirne gli sviluppi e, di conseguenza, a non permettere ancora un completo processo di storicizzazione rispetto a quel momento.
La seconda tendenza, diretta filiazione di questo atteggiamento fortemente difeso soprattutto in Europa, è quella di non staccarsi dall’idea del Sessantotto come fenomeno di rottura con il passato e di inizio di un’epoca ancora in fieri. Il Sessantotto non può essere visto, dunque, come l’anno della rivoluzione (che si sarebbe dovuta risolvere nell’arco di un breve periodo), culmine di un lungo percorso di maturazione critica rispetto allo sviluppo della società contemporanea, ma come una sorta di apertura di una fase nuova, progressiva e via via più violenta. Secondo questa rilettura a risaltare è il fallimento dell’aspetto rivoluzionario tanto da essere definita la “prima rivoluzione non consumata”, riconoscendone le potenzialità ma non gli effetti .
Ma allora, se il periodo successivo ha dunque manifestato il suo fallimento, sia attraverso la svolta terroristica, sia attraverso l’evidente consolidamento del capitalismo che era al centro della critica del mondo giovanile e studentesco dell’epoca, perchè mantenere viva questa continuità? Perchè a parlare del Sessantotto è proprio la generazione cresciuta in quel periodo, sono i protagonisti dei movimenti i veri artefici della memoria e coloro i quali detengono il ruolo di testimoni.
Quando allora un fenomeno del passato può divenire oggetto di studi storici? Vi è una grande ricchezza per gli studiosi che si dedicano alla storia contemporanea: la possibilità di accedere direttamente alla memoria, attraverso le testimonianze, ma vi è anche una grande difficoltà: rendere pure queste fonti. Esse sono molto più difficili da trattare rispetto ad un documento d’epoca, perché condizionate dall’elaborazione dei ricordi avvenuta durante tutto il periodo successivo, sono fortemente “personalizzate”, “soggettive” e “aperte”. Questo è uno dei nodi che non è ancora tempo di sciogliere rispetto al Sessantotto, che, come abbiamo detto, sembra non essersi ancora chiuso, non nei fatti e non nelle idee, ma nell’autoidentificazione anche attuale. Tutte le generazioni presenti in quell’anno hanno avuto un loro Sessantotto, attivo o passivo, agito o accaduto, visto o riflesso. E questo rimane il loro bagaglio da trasmettere, a volte mancando, appunto, dell’obbiettività necessaria allo storico.
Una differenza di accenti e di prospettive, come accennato, si è tuttavia intravista durante la settimana di studi: quella fra gli Stati Uniti e l’Europa. Sebbene la tendenza a fare riferimento alla propria esperienza personale si riscontri in entrambe le impostazioni, sembra che gli studi americani abbiano maturato un maggiore distacco dal Sessantotto. Per un motivo di fondo: il Sessantotto americano ha solide radici nel periodo che lo precede; esso viene considerato, infatti, come la fine di un lungo processo di costruzione della partecipazione politica e della difesa dei diritti civili iniziato a metà degli anni Cinquanta.
“Il 68 americano non è il 68”, afferma provocatoriamente Massimo Teodori[1], mettendo in luce uno dei principali spunti problematici del fenomeno, quello della sua stessa definizione. E soprattutto, per Teodori, il Sessantotto americano non è il movimento ideologico (di tipo marxista) che ha alimentato, al contrario, quello tedesco, francese ed altri, né si propone un ribaltamento politico del paese, ma entra in rapporto dialettico con il sistema. Nello specifico, è piuttosto un insieme di movimenti distinti, ad hoc, con scopi precisi, tra i quali è possibile individuare i “tre pilastri” centrali: il movimento dei civil rights, l’azione della Student for Democratic Society (SDS) ed il Free Speech Movement: il Movimento americano è, dunque, composto dai vari movimenti, dalle organizzazioni sociali, dalle azioni nei ghetti metropolitani, dalle forme più o meno organizzate di renitenza alla leva, che, tutti insieme, formano la New Left.
Il Sessantotto viene, spesso, presentato al plurale, o quel periodo risolto parlando degli “anni Sessantotto”, come tentativo di evidenziarne la molteplicità degli aspetti e dei contenuti. Basta citare un anno per indicare un concetto che ne racchiude molteplici? È sufficiente racchiuderne il senso nei sottotitoli che spesso l’accompagnano, quali: “l’anno della rivoluzione mondiale”; “la rivolta studentesca”; “i molti 68”?
Eppure, per l’immaginario collettivo basta pensare al Sessantotto e molto sembra già spiegato, la sua forza creativa è nelle lettere scritte con la maiuscola, nel numero, come uno dei titoli più efficaci e come uno slogan dei miti più immediati, che ricorda solo un altro anno rivoluzionario, il 1848, aspetto che ne delinea il carattere sovranazionale e, per così dire, universale (le altre rivoluzioni assumono il nome dal luogo e non dalla data). La data diventa immagine, proprio come le immagini diventano parte del suo significato.
Immagini, ma non solo. Il messaggio si diffonde attraverso la musica, la letteratura underground, la poesia, la “controcultura”, il cinema, nuove forme di linguaggio, parole d’ordine, slogan, manifestazioni, condivisione: anche in questo modo il Sessantotto diviene globale, così come globale è il suo messaggio. Si diffonde attraverso fotografie e filmati che diventano icone per una classe sociale non contemplata negli schemi mentali dell’epoca: quella giovanile, e più precisamente studentesca.
Il valore simbolico delle immagini fu molto forte all’epoca, perché collante, immediato e condiviso, della rinata spinta ideologica. Un esempio di grande valore simbolico è rappresentato dall’immagine scattata durante i giochi olimpici di Città del Messico, il 16 ottobre 1968, quando salirono sul podio due atleti di colore, Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo classificato nei 200 metri, che abbassarono la testa ed alzarono il pugno chiuso in segno di protesta contro la segregazione razziale e in favore dei diritti umani.
Richard Butsch, della Rider University, nel suo intervento dal titolo “Media: from Tv and telephones to the internet and GPS. The Communication Revolution and the legacy of the 60s”, evidenzia un altro fattore che ebbe le sue ripercussioni nella formazione delle coscienze: il ruolo dei media, ed in particolar modo della televisione. Divenuta in quegli anni il centro dell’attenzione familiare – lo schermo televisivo era infatti solitamente posto nella living room – essa rappresentava il mezzo principale di ricezione delle notizie, con il valore aggiunto della potenza delle immagini. La novità dello strumento, diffuso negli Stati Uniti a partire dal 1951, presentava ancora una ridotta produzione di programmi e pochi erano i canali televisivi: vi erano una decina di stazioni in tutto il paese ed esse trasmettevano soprattutto notizie. Questo faceva sì che un quarto della popolazione accedesse quotidianamente, allo stesso tempo, alle stesse notizie che, a loro volta, divenivano parte della conversazione e dell’elaborazione dei dati acquisiti. Si provi ad immaginare, ad esempio, l’impatto sulla popolazione e sul singolo individuo delle immagini provenienti dal Vietnam.
Tonando alle differenze, emerge come la spinta ideologica in Europa fu fortemente politica, mentre in America colpì l’aspetto soprattutto sociale. I movimenti in America, più che essere filiazioni dei partiti – anche per la marginalità di partiti di massa di orientamento antagonista – furono settoriali e specifici, con obiettivi concreti: primo fra tutti quello contro la segregazione razziale, problema divenuto insostenibile a partire dagli anni Cinquanta, di cui Martin Luther King diventerà collante ideale, toccando l’apice proprio nel 1968, anno in cui venne ucciso. Fortemente radicati nell’immaginario collettivo furono i suoi discorsi, che richiamavano migliaia di partecipanti e venivano diffusi attraverso i mezzi di comunicazione di massa. I più famosi: “I have a dream” del 28 agosto 1963 e “I have been to the mountain top”, pronunciato il 3 aprile 1968, il giorno prima del suo assassinio, riproposti al Centro Studi Americani.
Ma vi è un altro elemento a ricoprire il ruolo di collante, la guerra in Vietnam, contro cui si mobilita un numero considerevole di cittadini statunitensi (e poi degli altri paesi), soprattutto giovani, tanto da fare dell’Antiwar Movement – come ha ricordato Todd Gitlin – “il primo vero movimento di massa della storia degli Stati Uniti”[2]. Si riunirono, a partire dal 1964, in seguito all’incidente nel golfo di Tonchino, i vari gruppi che avevano alle spalle l’esperienza del dialogo e del confronto, quali il Free Speech Movement o la SDS (Student for Democratic Society) che, richiamando l’attenzione anche dei non strutturati in associazioni, divenirono elementi costitutivi di una partecipazione comune, seppur variegata, che rese ancora più solido il senso di identificazione che caratterizzò quegli anni.
È proprio questo sentimento che sembra rimanere sempre vivo nella generazione degli anni Sessanta: il senso di appartenenza ad un momento di costruzione della propria storia, che è passato attraverso canali non tradizionali della detenzione del potere. Il potere era allora il credere nella possibilità, se non di cambiare il mondo, di intervenire su di esso, a partire dalle piccole scelte dettate da un certo senso di giustizia sociale, fino all’espressione del proprio punto di vista su temi di ampio respiro, che riguardassero il proprio paese o i rapporti internazionali. Manifestare il proprio pacifismo, dimostrare che potevano esistere metodi alternativi al governo, alla gestione dei rapporti di forza, voleva dire occupare un ruolo all’interno della società che aveva a che fare con l’esistenza stessa della democrazia. Ma si viveva, durante gli anni Sessanta, un diverso rapporto fra dimensione collettiva ed individuale che va al di là di un tema quale quello proposto, ad esempio, da Hannah Arendt, che individuava nella minaccia della bomba atomica la spinta ad una mobilitazione generale. “Tutti in quegli anni si sentivano protagonisti, molti erano culturalmente coinvolti”, sottolinea Todd Gitlin nel suo intervento, ad indicare la centralità di quel periodo di fermento nel bagaglio collettivo della generazione che ha vissuto il 68, sia che fosse politicamente attiva, sia che non fosse coinvolta direttamente. Si trattava di un fenomeno di ampia portata, non solo politico, ma anche culturale, che “coinvolgeva violentemente le coscienze” aprendo qualcosa di nuovo. Questo senso di appartenenza e di condivisione è quello che molti ricordano del Sessantotto; e si condivideva anche una sensazione di “poter cambiare”, di intervenire sulla storia. L’idea della possibilità negli Stati Uniti era vissuta ed attivamente espressa; in Europa recepita attraverso i canali provenienti d’oltreoceano: il cinema, la musica, la letteratura.
Un potente mezzo di diffusione delle idee, utilizzato soprattutto dai giovani era appunto la musica. Numerosi sono stati i contributi sull’argomento, quali quelli di Bruno Cartosio, dell’Università di Bergamo, e Claudio Vedovati, della Scuola di musica popolare di Testaccio, su “Musica e media negli Stati Uniti degli anni Sessanta”, intervenuti al Centro Studi Americani, e la tavola rotonda tenutasi presso il Goethe Institut su “Che Guevara: stili di vita, cultura diffusa, linguaggi musicali e mass mediali della contestazione giovanile sessantottina”, con interventi di Stefano Gensini, docente di Filosofia e teoria dei linguaggi dell’Università “La Sapienza”; Thomas Hecken, musicologo e filologo della Ruhr-Universitat, Lidia Ravera e Gianfranco Salvatore, dell’Università del Salento.
La musica, unita ad un certo uso del linguaggio, che era esclusivo della categoria sociale giovanile, andava a completare il quadro d’insieme costituito dall’infinito numero di elementi che arricchiscono e rendono composito (nonchè di difficile definizione) l’intero fenomeno: diritti civili, lotta alla segregazione razziale, opposizione alla guerra del Vietnam, senso della democrazia, costruzione della partecipazione. Il linguaggio giovanile, innovativo ed incomprensibile alle generazioni precedenti, si andava arricchendo e politicizzando nall’avvicinarsi al ’68. Esso comprendeva termini psicoanalitici (repressione), una certa proprietà della sintassi, giocava sulle metafore, aveva la tendenza a personificare il nemico (Il Capitale, Il Potere Accademico), affinava il senso del paradosso e puntava sull’immediatezza dello slogan (“Vietato vietare”; “Siate realisti: chiedete l’impossibile”; “Il futuro non è più quello di una volta”, etc.)[3], per meglio raggiungere coloro ai quali era diretto. Assistere ad un concerto significava partecipare, esserne corpo e protagonista, allo stesso modo marciare durante una manifestazione era l’espressione fisica di un pensiero critico, o anche seguire un discorso pubblico assumeva il senso di una contestazione non solo collettiva, ma anche individuale: ognuno aveva un proprio ruolo attivo espresso attraverso la propria presenza.
Per fare un esempio, il sermone, da cui proveniva l’oratoria di Martin Luther King, era esso stesso “un discorso pubblico in forma musicale”[4], che richiedeva la partecipazione attiva dei corpi e della voce degli ascoltatori (il coro), divenendo il “punto culminante di una crescita emozionale” spesso preparata dalla musica precedentemente suonata. Una citazione, breve e rapida, riusciva allora a trasmettere un messaggio, condiviso, che convalidava la nuova identità, o meglio le molte identità che hanno fatto del “Movimento” una delle più originali esperienze collettive. La pace, concetto generale applicabile alla situazione contingente, diveniva messaggio di un sentimento provato in modo diverso rispetto al passato: essa veniva accostata all’amore, “love”, non più quello romantico, ma quello di dimensioni planetarie, che esprimeva un alto “concetto morale per l’azione sociale”[5].
Ma chi erano coloro che facevano parte del Movimento? Nel Sessantotto è possibile identificarli (a differenza dell’auto-identificazione) con i giovani, per la maggior parte studenti, appartenenti alla classe media, in gran parte bianchi. Negli Stati Uniti vi è una differenza sostanziale rispetto all’Europa, anche riguardo alla vicinanza con la classe operaia, che oltreoceano era all’epoca abbastanza distaccata dal movimento e, in diversi casi, soprattutto all’inizio, di tendenza conservatrice, mentre a richiamare l’attenzione dei difensori dei diritti civili erano gli emarginati, le vittime della segregazione razziale o civile.
Il Sessantotto in Europa è ancora più difficile da elaborare, per due motivi principali: uno di carattere storico, e riguarda il rapporto ed il legame con il proprio passato, uno di carattere metodologico, che riguarda l’elaborazione della propria storia ed il legame con il proprio futuro. Sembra che quel momento di ribellione, oltre che di grande creatività, non si sia mai consumato completamente, né esaurito rendendo la sua elaborazione incompiuta. L’Europa del secondo dopoguerra presenta un panorama politico, economico e sociale non paragonabile a quello degli Stati Uniti. La guerra “totale” combattuta sul proprio territorio ha lasciato una eredità irrisolta: le dittature, la guerra civile, i campi di sterminio, ed ancora la fame, i bombardamenti, la vicinanza della morte hanno segnato un’intera generazione. La cesura generazionale, fra chi ha vissuto quegli anni e chi è cresciuto nel periodo della ricostruzione o del benessere, è enorme. La contestazione della affluent society americana non ha quel valore di drammaticità assunto nel vecchio continente. Qui la nuova generazione si trovava davanti ad un dubbio: da che parte erano i nostri genitori? Si trattava di un dubbio di coscienza profondo, che minava dalle basi la propria identità. Nelle scuole e nelle università da chi imparavano le lezioni? Cosa vi era dietro il senso di autorità? L’idea stessa di democrazia che finalmente aveva vinto sui fascismi era quella messa in atto dalla classe politica?
Sembra che a queste domande non si trovi ancora risposta. La storiografia sul Sessantotto in Europa è ancora prodotta dalla generazione che ha vissuto quegli anni, che sono anni in cui tutti – attivi o meno – come nel caso dell’America, sono stati protagonisti ed è spesso limitata (o resa poco obiettiva) dall’elaborazione dello studioso/testimone. Molti degli interventi hanno infatti ruotato sulla testimonianza diretta (Mario Capanna, Lidia Ravera, Alessandro Portelli, Luciana Castellina), e non sempre di chi era interno al Movimento, omettendo in molti casi il contesto storico precedente, con il rischio di cedere alla tentazione di fare della propria esperienza il centro della discussione, per poi spiegare il proprio percorso individuale.
Molto più approfondite invece sono state le presentazioni degli storici contemporaneisti, quali Giovanni Sabbatucci, su “Il significato storico e politico del ‘68”[6] (introdotto da un completo percorso sugli Stati Uniti che parte da Bob Kennedy per arrivare a Barak Obama, a cura di Daniele Fiorentino), Nicola Tranfaglia e, per le conclusioni delle sessioni del Goethe Institut, Giuseppe Carlo Marino, che ha proposto un’interessante lettura critica dell’intero convegno [7]. Da questi interventi emerge, da una parte, e con grande chiarezza, il contesto storico, complesso e ricco di suggerimenti per una ricostruzione ancora aperta; dall’altra, ancora una volta, l’impossibilità di dare una definizione finale al Sessantotto.
Il termine rivoluzione non può infatti essere utilizzato, perché una rivoluzione in senso stretto non vi è stata (se non nei costumi), ma anche il termine “Movimento” non riesce a combaciare con il 1968, sia perché al singolare non basta, sia perché richiede un lungo processo preparatorio che lo allontana dal ’68. Lo stesso soggetto (i giovani, gli studenti) non riesce ad essere compreso in un termine, a meno che non lo si consideri come “classe”, superando lo schema marxista e la divisione tradizionale. Tuttavia, anche individuando questo, manca al ’68 – come ha osservato Sabbatucci – un programma e manca il fine.
Volendo ripetersi, il Sessantotto, se considerato come uno spartiacque, dimentica, nella sua elaborazione soprattutto europea, ciò che lo ha preceduto, mentre insiste molto su quello che ne è seguito. Soprattutto nell’area tedesca il rapporto fra l’anno della rivolta studentesca e il successivo sviluppo del terrorismo è ritenuto molto stretto. Una sorta di “senso di colpa” verso la generazione dei padri (quella sopravvissuta alla guerra) – già individuato per il caso francese – o di “senso di inferiorità” dettato dal dubbio di coscienza, sembra gravare sul tentativo di analisi fatto in Germania, tale da mettere in relazione l’esperienza del nazismo, riguardo all’uso della violenza, con quella del terrorismo.
Nato da accuse di voler riproporre la mentalità nazista, lanciate verso chi prese parte alla lotta armata, il problema è divenuto oggetto di dibattito e di ripensamento anche all’interno della sinistra. La questione è stata sollevata dalla regista tedesca Margarethe Von Trotta, autrice del film “Anni di piombo”[8] del 1981, in cui racconta la storia di Christiane Ensslin e di sua sorella Gudrun, che nel 1977 morì nel carcere di Stammheim.
La Von Trotta, che ha dato una delle testimonianze più intense, ha messo in luce il dramma vissuto dai giovani di quegli anni, spiegando la rottura fra la generazione dei padri e quella dei figli con l’atteggiamento evasivo dei genitori, che tacevano sul loro passato. Il silenzio dei padri produceva nei figli l’incapacità di domandare, di sciogliere il dubbio – da che parte erano durante il nazismo? Quali le loro responsabilità? – conducendo, in mancanza del confronto, allo scontro.
Il dibattito, seguito alla proiezione del film, ha aperto un ulteriore spunto di riflessione, tutto da dimostrare, che mette in relazione i tre paesi dell’Asse, Italia, Germania e Giappone, ed il successivo sviluppo della pratica terroristica, facendo presupporre la condivisione della teoria che lega l’inclinazione di determinate aree geografiche allo sviluppo di forme di violenza dittatoriali o terroristiche.
Un altro argomento toccato e non risolto rimane quello della condizione femminile, di cui l’America apre il campo di studi[9], così come ha aperto anticipatamente rispetto all’Europa la partecipazione delle donne alla vita sociale e politica. Molto più sviscerato in ambito americanista, l’argomento ha creato nel pubblico una serie di interventi e di quesiti, che vede l’Italia in modo particolare ritenere forse ancora prematuro inserire la storia di genere nel periodo che precede (di poco) la formazione del Movimento femminista.
Molti, quindi, gli argomenti trattati durante la settimana di studi (che non è stato possibile in questa sede trattare singolarmente), molti gli interrogativi ancora aperti, numerose le strade interpretative, perché, come ha sottolineato Giuseppe Carlo Marino nel suo sunto conclusivo[10], “manca un quadro interpretativo condivisibile: il 68 come fatto è concluso, ma come evento resta ancora aperto”. Da tenere in considerazione vi sono altri due (almeno) riferimenti fondamentali: il valore quantitativo del “fatto” e la difficoltà di definire l’“evento”, inteso, quest’ultimo, come insieme di spinte ideali, di emozioni e di speranze. La chiusura dell’intenso momento di riflessione su uno dei più controversi (soprattutto nella elaborazione a posteriori) periodi della nostra storia ha trovato nelle parole riadattate da Giuseppe Carlo Marino un nuovo spunto interessante se non, bene o male, superato: “Un fantasma si aggira per l’Europa, il fantasma del Sessantotto”.
[1] Nella sua relazione dal titolo “Che cos’è stato il 68 americano? Ci sono state sue influenze in Italia?”, Centro Studi Americani, Roma, 20 maggio 2008.
[2] Todd Gitlin, Columbia University, An Eyewitness account of ’68: being in the movement of SDS, Centro Studi Americani, 19 maggio 2008.
[3] Stefano Gensini, intervento del 22 maggio 2008, Goethe Institut.
[4] Bruno Cartosio, intervento del 21 maggio, Centro Studi Americani.
[5] Bruno Cartosio, American Mosaic: Identities of the 1960s, 22 maggio 2008, Centro Studi Americani.
[6] Centro Studi Americani, 20 maggio 2008.
[7] Il giudizio degli storici. La controversa lezione del ’68 e il presente, Goethe Institut, 23 maggio 2008.
[8] Goethe Institut, 20 maggio 2008.
[9] Lynn Dumenil, Women and the Civil Rights Movement, Centro Studi Americani, 21 maggio; Women and the Emergence of Feminism, 22 maggio 2008.
[10] Giuseppe Carlo Marino, Goethe Institut, 23 maggio 2008.
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